L’antidiario.
Ovvero, strenue (leggi infruttuose) strategie di resistenza all’odissea autobiografica.
(English version below)
Je hais les voyages et les explorateurs.
Et voici que je m'apprête à raconter mes expéditions.
Claude Lévi-Strauss, Tristes Tropiques.
Non so dire con esattezza l'istante in cui l’io mi sia venuto in uggia, in altre parole quando una lieve, seppur pulsante, noia per la maggior parte dei romanzi autobiografici si sia insinuata ai varchi delle meningi, dapprima come un brusio che infastidisce solo quando uno inizia a farci caso, infine come una rete a maglie fitte che sbrindella le compatte ragioni di uno scritto ogni volta che l’attraversa - perfino quello che ha ogni diritto di reclamare la pulsione autobiografica come garanzia di integrità e “autenticità” - e rende la benevolenza con cui ero solita accoglierlo difficile da ricomporre, ora.
Non so quindi come e quando sia nato questa riluttanza per l'io, l’io ovunque, l’io che non sa mettersi da parte, l’io che divora ogni immaginazione e inchioda i piedi nel cemento del non sapersi pensare oltre il getto dei nostri occhi, gli steccati delle proprie intime categorie. O almeno, se si decide di non uscire dal perimetro delle proprie pareti, l'io che non conosce metamorfosi, l’io che non sa trasformarsi nell’io di qualcun altro, neanche per finta, e resta bozzolo, avvolto nei fili corti di una vita solo sua.
La miopia che si riaffaccia dai bordi delle pupille
quando si fa scuro,
mi rammenta dolorosamente
un crescente rintanarsi dello sguardo
dentro spazi più nitidi e innocui
e il desiderio
di lanciarlo oltre il primo orizzonte di sfocatura.
Devono essere i libri che mi è capitato di leggere in queste ultime settimane: glorified journals, diresti tu. Trovarne uno che non spacci il cosa l’autore o l’autrice hanno mangiato a colazione - porridge, pane e ricotta, scones o picau ar y maen - per una vicenda universale, è impresa ardua e quei pochi che hanno l’audacia di raccontare solamente storie, e raccontarle per bene, ovvero riuscire a modellare l'io in fogge inusitate e materiali inaspettati per proiettarlo (e noi lettrici e lettori con esso) in mondi altri, mondi di fantasia radicale, sono ormai delle rarità.
E raro da cogliere, pare,
l'odore del mare di Caernarfon,
si sottrae, mi ci accosto,
ma non tanto,
con una prudenza
che mi sorprende.
Se odora è di pietra,
e della pietra ha il colore,
e onde a scaglie che fendono l'aria
i ciottoli tanti rivoli di risacca
che ha perso la strada
per tornare al largo,
rivoli
d’acque che all'asciutto si sono sgretolate
in gocce di pietra,
e così sono rimaste.
E con quella pietra
hanno costruito un castello
perché molto tempo prima
Macsen il romano
sulle rive di un altro mare
vide in sogno queste terre blu,
e una donna che già amava.
E vorrei toccare quel mare cerata
colore tempesta trattenuta
che illividisce il cielo
mare senza odore
- nessun profumo
a involgersi
nelle trame della mia borsa
per farsi portare altrove -
per accertarmi che mare d'acqua sia e non roccia,
ma il timore che le nocche s'infrangano contro la superficie
mi fa esitare.
Mare grigio, mare di lavagna,
dove antiche storie scritte col gesso
si sono sciolte in schiuma, e tornano
in una lingua che suona
come il crepitio del fuoco
in un pomeriggio di novembre,
quando sono tutti intorno a un fuoco a raccontarsi
cosa hanno sognato la notte prima.
Intrico di rami, barriera d’aglio orsino,
forse l'odore salino vi resta impigliato.
Mare di lame di carta scura, schiudono,
bruciano le falangi che l'hanno infine sfiorato,
mare rocciato: non scorre tiepido nelle narici,
non avvolge la testa
e le spalle col suo scialle di sale e legni,
trama di timo, salicornia, mirto e malva.
In quest’acqua dove Ellen è stata maestra di marinai
e un monaco apicoltore salpò con api gallesi
quando fece ritorno a casa, in Irlanda,
in quest’acqua d’ombre, corde d’arpa e sonni
non so neanche se saprei nuotare.
Sarà l’antropologia e tutti gli anni spesi a correrle dietro, sarà questa scienza empirica di materialità e immaginari da fare e disfare come una tela, a rendermi ora invisa ogni scintilla autobiografica, perfino la mia che tra queste righe s'affaccia, sbilancia, si frammenta nei versi, macchia la pagina e poi s’acquatta, mi guarda di sottecchi?
L’antropologia c’entra sempre, in qualche modo.
Ho provato diverse volte a liberarmi dai suoi artigli da fiore di cotone, soffici, labirintici e letali, e ogni volta ho dovuto arrendermi all’evidenza che, fin dalle prime letture tra gli scorticati muri della facoltà di lettere, quelle spire s’erano ormai conficcate nella mia carne, globuli ingrati che si inseguivano a perdifiato nel sangue: linguaggi, mormorii, il corpo, la voce, le lacrime, la danza, il ragno, lo specchio velato, il deserto, le liparote cave di pomice e di ossidiana, cristalli di rocca, fuochi d’artificio, onore e vergogna, purezza e pericolo, l'ascolto, il dubbio.
Allora non me ne rendevo conto, e mi sentivo illuminata dal calore di quel nuovo sapere, dal dono di quegli occhi sgranati, pupille da belladonna, pupille che vedevano anche al buio, sazia e allo stesso tempo ancora affamata delle meraviglie che avrei trovato alla pagina successiva, a una nuova lezione, a un tuffo in un nuovo terrain.
A un tuffo da uno scoglio giallo zafferano
nella schiuma increspata, frizzante del mare maltese,
un mare dove mi chiedo se voglio ancora nuotare.
Adesso è tardi, non c’è rimedio, terapia, efficacia simbolica che tenga. Il mio sguardo è ormai iniettato del suo veleno, e fa sì che ogni apparenza, perfino la più placida e innocua, si riveli subito come crepitante scenografia di cartapesta in fiamme, stridio di intelaiatura di ferro e chiodi, inganno di strutture, mentre scalza sullo sdrucciolevole terreno dell’animo inquieto indietreggio, dilato lo sguardo, sguardo da lontano, imbocco tratturi impervi, e non mi sento più a casa da nessuna parte.
Deve essere per forza l’antropologia. L’antropologia ricerca del soggetto, l’antropologia e il diario, la storia di vita - l’io isolato a stento nella premessa, e per i più ardimentosi anche nel primo capitolo della monografia, ma che persiste, affiora, qua e là, a spruzzi, pure in quelli successivi - l’io che torna come una perdita d’acqua da tubi saldati male sotto il pavimento. L’io che rumoreggia come l’acqua del ruscello che scorre limpida e gelida ai piedi del cottage,
e so che è gelida perché ci ho immerso i piedi,
ho conoscenza empirica di quest’acqua che scorre
sotto la finestra della mia stanza, e che la prima notte ho sognato invadere il pavimento
anche i sogni sono conoscenza
mentre la voce di chi mi era accanto, una sconosciuta, mi diceva imperturbabile che era una cosa normale, succedeva sempre che l’acqua del ruscello finisse pure nella stanza, e nessuno può farci niente, se non prenderne coscienza.
Succede sempre: l’io che invade ogni spazio come acqua, l’io da tenere a bada, l’io da problematizzare, l’io che non può essere invisibile, che presunzione questa, l’io che si sente scomodo, un outsider, posizione privilegiata, posizione maledetta, limiti liquidi, il qui liminale.
Magnificare
Per contrastare l'onnipresenza dell'io, il suo trapezio tra concetti vicini e concetti lontani, tra particolare e universale, mi afferro al particolare. Non potendo sradicare del tutto l’io, decido di de-centrarlo spostando l’attenzione verso l’inanimato, pur cosciente che pure quella di inanimato è definizione antropocentrica (leggi presuntuosa). In particolare, l’oggetto a cui decido di ricorrere per mettere un altro ostacolo tra me e quello che mi circonda, in altre parole per attutire l’io, ha un nome altisonante: magnifier. Il magnifier che da lontano ribalta le cose e da vicino le restituisce nella direzione che hanno.
Magnifier: Magnificare, amplificare, ingrandire, esagerare.
Mi chiedo (per tornare alla sorgente di questo ragionamento e al motivo per cui sono qui a scrivere): non è quello che dovrebbe fare la letteratura?
Ma allora perché tanta opera letteraria rintuzza quasi sempre nel limite del quotidiano, dei nostri ristretti orizzonti? Perché questo incaponirsi, questa cocciuta fissazione sull’io, come se i suoi paesaggi interiori siano gli unici meritevoli di essere percorsi, magnificati, appunto? E mi concedo l’attraversamento di un ponte in questo libero (s)ragionare: perché l’essere umano è sempre al centro di ogni cosa, tempo, spazio, dimensione, necessità?
Perché il principe Llywelyn può decidere all'improvviso della vita dell'ottimo e fedele cane Gelert che aveva salvato la vita del figlioletto, uccidendo il lupo, in nome della presunzione di avere sempre ragione in quanto umano? Perché lo guida una sola ragione, la sua? Perché il dubbio non lo sfiora?
Il dubbio avrebbe salvato Gelert.
Se volessi ancora prestare ancora il fianco all’antropologia, sarebbe sempre più un’antropologia oltre l’umano. In questo, il mio vecchio interesse per gli oggetti si rivela, per il momento, in attesa di approfondimenti maggiori, un prezioso appiglio.
Eppure.
Eppure gli oggetti non sono solo oggetti: il magnifier che ho infilato nello zaino prima di partire è la parte visibile, tattile di una biografia stroncata; non mi apparteneva fino a qualche mese fa, e non mi appartiene del tutto neanche adesso; sento di essermene appropriata in maniera prepotente, ma allo stesso tempo ineluttabile.
Volevo qualcosa di lui, lui che non c’è più, lui che mi invitava sempre ad appoggiarci l’occhio, a vederci attraverso per cogliere meglio i dettagli dei negativi e dei provini sulla lavagna luminosa, e io pensavo ogni volta: non basta l’occhio nudo? Ma mi avvicinavo comunque e ogni volta gli davo ragione: no, l’occhio nudo e basta non era sufficiente. Noi esseri umani, nella conoscenza, non siamo sufficienti. E così il magnifier mi ricorda l'umiltà di un sapere che riconosce i propri limiti. L'occhio nudo che chiede aiuto allo strumento, all'oggetto, all'inanimato.
In questo occhio nudo sei rimasto impresso,
chino sulla tua lavagna di luce,
in quel tuo anfratto di metallo, vetro e carte,
Atlantide smantellata,
chino sul tuo magnifier che ho portato con me
su quest'altra isola dove un tempo hai immaginato
di cercare un’altra vita,
questo paese in cui sapevi che sarei stata,
è una delle ultime cose che ci siamo detti
a cena.
Il magnifier è rotto, immagino ti sia caduto un giorno. Non so quando. L’ultima volta che mi hai invitato a guardarci attraverso era ancora tutto intero.
Ti sarà caduto, ma la lente non si è rotta; è solo, impercettibilmente, scheggiata. I pezzi però non stanno più insieme. Lo hai riparato con del nastro isolante rosso. Si stava scollando così ce ne ho messo sopra un altro, nero, tre volte avvolto, impossibile abbraccio - “e tre dalle mie mani svolò, come un’ombra o un sogno” (1).
Posso fare meglio, magnificare l’incidente, saltare di genere: lo avevi lasciato un attimo da solo, per andarti a cuocere un caffè, solo qualche minuto su quella lavagna di luce lasciata accesa, e voleva, pure lui, oggetto che simula l’occhio, farsi “io”, non essere solo un mero strumento al servizio dell’umano; voleva vedere di più, provarci da solo a spingersi oltre l’apparenza delle cose, oltre la grana pellicola, scoprire l’universo che si cela in un cristallo d’argento; forse ha colto un luccichio, un bagliore, e ha aguzzato lo sguardo. Ha strizzato sempre più quella sua palpebra vitrea per carpirlo meglio, ma lo sforzo è stato eccessivo e il vetro s’è incrinato e tu, che non eri neanche là, hai sentito un crack e ti sei precipitato di nuovo nella camera oscura, trovando quel tuo oggetto così, dove lo avevi lasciato, immobile sopra i negativi, sulla luce, frantumato dal desiderio di voler scrutare oltre.
E ora il magnifier porta la ferita di quel desiderio tanto umano di volersi spingere oltre i propri limiti, come l’Ulisse dantesco oltre le Colonne d'Ercole: “Ma misi me per l'alto mare aperto” (2).
Naufragare
Ulisse ha superato le colonne d’Ercole, la sua nave non si è inabissata e si è diretto verso le isole britanniche; si è prima fermato ad Anglesey dove ha raccolto tre conchiglie e poi è sceso a sud, a Caernarfon, chiudendosi nel suo rifugio; i suoi uomini hanno assaggiato i fiori del giardino, e sono stati mutati in galline. Ora razzolano fuori dal cancello, si litigano il cibo con i gabbiani. Ulisse non scruta più l'orizzonte, non pensa più al mare, al mare che non ha odore, a quello che ce l’ha. Scruta invece gli oggetti che ha intorno, che ha raccolto, che si è portato dietro, si sofferma sulla superficie delle cose, che come Palomar notava, è inesauribile (3). Le uniche colonne d’Ercole che vuole superare ancora, in questi giorni, sono quelle che lo conducono a un ruscello.
“La storia di un ruscello, anche di quello che nasce e si perde tra il muschio, è la storia dell’infinito”, scriveva Elisée Reclus nel 1869 (4).
Come Reclus, la sola conoscenza che basta avere, per ora, è quella di questo ruscello, del suo gorgoglio, di ogni sua goccia, dell’acqua che suona diversamente quando incontra una roccia che emerge e si spezza in una cascatella, o quando si insinua e vortica in una rientranza d’erba e rocce; della luce che scivola dalle foglie di un salice e fluttua sull’acqua, si oscura, ritorna; della nevicata soffice e tiepida dei pioppi, della corrente in senso opposto a mezzo metro dall’acqua di una miriade di minuscoli insetti; di un’anatra con i suoi cinque piccoli, due che restano indietro, e si affrettano per raggiungere gli altri; d’una sorgente che vedo solo se chiudo gli occhi, e dove posso viaggiare, solo se chiudo gli occhi.
Non dirmi nulla, Tiresia che tutto è stato già svelato, raccontato, mostrato; e la rimbombante, e spesso ripetitiva cacofonia di racconti che troviamo nei social, la cosificazione dell’io e di ogni suo passo oltre l’uscio di casa, o di stanza in stanza, ha reso impossibile il viaggio, o ci ha intrappolato nell’idea che uno spostamento che non sia pensato come ripetizione delle tappe del già visto, o commercio della propria esperienza, è qualcosa di inutile. Ci vuole una bella forza interiore per decidere di non fare qualcosa di già suggerito, quando si è in viaggio, per non “comprare” il viaggio di un altro.
Ho cercato di non leggere quello che era stato scritto da altri nel corso delle loro residenze, e ho scansato con cura: le dieci cose da vedere a Caernarfon, Caernarfon in un giorno, due, tre; i migliori ristoranti di cucina gallese; Manchester, cosa vedere in un giorno. E così via.
L’Odisseo che c’è in me (il nome mi è sempre piaciuto di più di quello d’Ulisse) canticchia Wake up the dawn and ask her why/A dreamer dreams she never dies/Wipe that tear away now from your eye/ (5), pensa che in fondo non avere una connessione internet non è poi così male, e decide di fermarsi; restare a scrivere, imbrattare fogli di acquerelli rimpiangendo di non aver mai imparato davvero a usarli, leggere sul ciglio di un ruscello, oziare sul soffice e fresco materasso d’una stanza d’albergo a dieci minuti dall’aeroporto. E passare le notti successive a sognare di andare alla deriva per i terminal, e perdere il volo.
Per dire: non mi interessa prendere nota di una lista di cose tradizionali, o ritrovarmi il vero Galles sulle papille gustative. Mi interessa però che un gruppo di amici, tra cui i proprietari del cottage che mi ospita, dedichi il proprio tempo, e quindi dia importanza, alla preparazione di uno spettacolo di balli in costume per esibirsi nel corso dell’annuale e caotico Food Festival; o che Nici inviti a cena a casa sua me e Kristina, la mia compagna di residenza, per essere lei a cucinare piatti gallesi, e dunque che scelga intenzionalmente di essere la mediatrice materiale di questa conoscenza di cui ha anche scritto in passato. Attenzione, non ha scritto di cucina gallese tradizionale, ma di cucina sua. Penso che non esista e non sia mai esistita una cosa come la cucina tipica, tradizionale, addirittura nazionale. Ogni cucina è immaginariamente collettiva, ma sempre individuale. Tutt’al più familiare, se la pensiamo come rituale (impreciso) di ri-attuazione di legami passati.
E mentre osservo Nici cucinare, ecco farsi strada nella mente un pizzico di ricordo:
il coniglio finto, il buon Rarebit, che credevo contenesse carne, mi fa sempre pensare all’orrore che provai, prima di giungere a Malta per la prima volta, nello scoprire l’esistenza della fenkata, il pasto maltese a base di coniglio. A quel tempo dividevo la mia stanza con una bellissima coniglia bianca, gli occhi celesti.
E posso anche sentirmi libera, nonostante il mio amore per i miti e le leggende, di tralasciare i libri dedicati alle leggende gallesi ammiccanti dagli scaffali del Palas Print.
Ma allo stesso tempo ascolto rapita le fiabe che Kristina racconta mentre passeggiamo lungo i sentieri di Beddgelert. E risento quel friccicore che in ogni caso questo tipo di storie mi suscitano sempre, per il modo in cui colorano i luoghi, li fanno splendere.
Però poi, nel momento in cui il racconto finisce, mi chiedo: sono gli antropologi, in sostanza persone mosse dall’incanto per l’altrove, per la coscienza che non esista un radicale altrove (e non certo da ora) individui ormai incapaci di incanto? Ma senza incanto, che senso ha lo sguardo?
E come si ritrova l’incanto?
Dovrei addormentarmi sotto una quercia o un olmo, risvegliarmi nella terra delle fate dove il tempo scorre in modo diverso, per poi far ritorno in un luogo che è ormai un altrove temporale, nuovo e incontaminato al mio stesso sguardo?
- Sembra una cosa bella, finire nel mondo delle fate - aveva concluso Kristina quella volta, - ma non lo è affatto: quando ci si sveglia ci si ritrova soli [perché chi amavamo non c’è più].
Pure qui a Caernarfon il tempo scorre in maniera diversa, e dimentico spesso che giorno è.
"Quello che sono è quasi nulla caro. Quasi mortale, quasi un’ombra come te. È un lungo sonno cominciato chissà quando e tu sei giunto in questo sonno come un sogno. Temo l’alba, il risveglio. Se tu vai via, è il risveglio." (6)
E come Calipso anche io temo il risveglio, a meno che non significhi risvegliarmi in un luogo dove la me scrittrice mette da parte, per un po’ di tempo, la me antropologa, per poter creare un radicale altrove che le porti stupore, e poi un altro, e un altro ancora. In altre parole, (come avrebbe detto Alberto Sobrero, il mio professore di Antropologia e Letteratura quando parlava di antropologi divenuti alla fine scrittori e poeti), naufragando.
E così, per disperdere l’io, per la strategia dell’oggetto, per magnificare, per ritardare il risveglio, mentre ero ancora in Galles, mi sono messa a naufragare in tutti gli altrove che non si vedono a occhio nudo.
Nota: Per ritrovare
l’odore del mare:
dimenticare di saper nuotare.
Riferimenti
- Omero, Odissea, Libro XI.
- Dante Alighieri, La Commedia, Inferno, Canto XXVI.
- Italo Calvino, Palomar.
- Elisée Reclus, Storia di un ruscello.
- Oasis, Champagne Supernova.
- Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, L’isola.
The anti-diary.
Or rather, strenuous (read: unsuccessful) strategies of resistance to the autobiographical odyssey.
Je hais les voyages et les explorateurs.
Et voici que je m'apprête à raconter mes expéditions.
Claude Lévi-Strauss, Tristes Tropiques.
I cannot exactly pinpoint the moment when the 'I' became a nuisance. In other words, when a slight but persistent feeling of distress toward most autobiographical novels crept into my mind. It started as a buzz that only annoyed me once I began to notice it, but eventually became a tightly woven net that tore through the cohesive reasoning of a piece of writing every time it appeared. Even works that could rightfully claim autobiographical authenticity were affected, making it difficult for me to regain the benevolence with which I once greeted them.
I do not know how or when this reluctance toward the ‘I’ began—the ‘I’ that is everywhere, that cannot set itself aside, that devours all imagination and is stuck within the confines of its own intimate categories. This ‘I’ is unable to think beyond what is superficially visible, unable to undergo metamorphosis, unable to transform into someone else’s ‘I’, not even in pretence. It remains a cocoon, wrapped in the short threads of a life that is only its own.
Shortsightedness which reappears
from the edges of my pupils
when it gets dark,
painfully reminds me
of the increasing retreat of the gaze
inside sharper and innocuous spaces
and the desire
to cast it beyond the first horizon of blur.
It must be the books I’ve been reading these past few weeks: glorified journals, you might say. Finding one that doesn't pass off what one had for breakfast - porridge, bread and cottage cheese, scones or picau ar y maen - as a universal journey, is a challenge, and those few who have the audacity to just tell stories, and tell them well, in other words, to be able to mould the self into unusual shapes and unexpected materials to project it (and us readers with it) into other worlds, worlds of radical fantasy, are now rarities.
And rare to grasp, it seems,
the smell of the Caernarfon sea,
it eludes, I approach it,
but not so much
with a caution
that surprises me.
If there is a smell it is the smell of stone,
and its colour is that of stone,
with flaky waves
to cleave the air
the pebbles so many rivulets of undertow
that has lost its way back out to sea, rivulets
of waters that in the dry have crumbled
into drops of stone,
and so they remained.
And with those stones
they built a castle
because long before,
Macsen the Roman
on the shores of another sea
saw in a dream these blue lands,
and a woman he already loved.
And I would like to touch that waxed sea
colour of a restrained storm
that brightens the sky
sea without smell
- no perfume
will wrap itself
in the wefts of my bag
asking to be taken elsewhere -
to make sure that it is sea made of water and not rock,
but the fear of knuckles cracking against the surface
makes me hesitate.
Grey sea, sea of slate,
where ancient stories written in chalk
have melted into foam, and return
in a language that sounds
like the crackling of a fire
on a November afternoon
when they are all around a fire telling each other
what they dreamt the night before.
Intricate branches, a barrier of wild garlic,
perhaps the salty smell gets caught in it.
Sea of dark paper blades, hatch,
burn the phalanxes that finally grazed it,
rocky sea: it does not flow tepidly into the nostrils,
does not wrap the head
and shoulders with its shawl of salt and woods,
weave of thyme, glasswort, myrtle and mallow.
In this water where Ellen was a master of sailors
and a beekeeping monk sailed with Welsh bees
when he returned home to Ireland,
in this water of shadows, harp strings and slumber
I don't even know if I could swim.
Is it anthropology and all the years spent chasing after it, is it this empirical science of materiality and imagery to be made and unmade like a weave, that now makes all autobiographical tension unpalatable to me, even my own, which between these lines appears, unbalances, fragments in the verses, stains the page and then settles down, looks at me from behind?
Anthropology always has something to do with it, somehow.
I have tried several times to free myself from its soft, labyrinthine and lethal cotton flower claws, and each time I have had to surrender to the evidence that, ever since my first readings amongst the flayed walls of the Faculty of Letters, those coils had become embedded in my flesh, ungrateful globules chasing each other at breakneck speed through my blood: languages, murmurs, the body, the voice, tears, dance, the spider, the veiled mirror, the desert, the pumice and obsidian quarries, rock crystals, fireworks, honour and shame, purity and danger, listening, doubt.
I didn’t realise it at the time, and I felt illuminated by the warmth of that new inflaming knowledge, by the gift of those wide-open eyes, belladonna pupils, pupils that saw even in the dark, sated and at the same time still hungry for the wonders I would find on the next page, at a lesson, ahead of a plunge into fieldwork.
At a dive from a saffron rock
in the rippling, sparkling foam of the Maltese sea,
a sea where I wonder if I still want to swim.
Now it is late; there is no remedy, no therapy, no symbolic effectiveness that holds. My gaze is now injected with its poison, rendering everything—even that which is placid and harmless—as a crackling scene of burning papier-mâché, screeching iron frames, and nails, a deception of structures. Barefoot on the slippery ground of the restless soul, I step back, dilate my gaze, gaze from afar, take impervious tracks, and no longer feel at home anywhere.
It has to be anthropology. The anthropology as the search for the subject, anthropology and the diary, the life story - the ‘I’ barely isolated in the foreword, and for the more daring even in the first chapter of the monograph, but which persists, surfacing, here and there, in spurts, even in the subsequent ones - the ‘I’ that returns like a water leak from badly welded pipes under the floor. The ‘I’ that rumbles like the water of the stream that runs clear and icy at the foot of the cottage,
and I know it is icy because I have dipped my feet in it,
I have empirical knowledge of this water that runs
under the window of my room, and on the first night, I dreamt it seeping through the floor
dreams are also knowledge
while the voice of the person next to me, an unperturbed stranger, told me that it was a normal thing, it always happened that the water from the stream also ended up in the room, and no one can do anything about it except become aware of it.
It always happens: the ‘I’ that invades every space like water, the ‘I’ to be kept at bay, the ‘I’ to be problematised, the ‘I’ that cannot be invisible, what a presumption this is, the ‘I’ that feels uncomfortable, an outsider, privileged position, cursed position, liquid limits, the liminal here.
Magnify
In order to resist the omnipresence of the self, its flying trapezium between concepts both near and far, between the particular and the universal, I grasp the particular. Not being able to eradicate the ego entirely, I decide to de-centralise it by shifting my attention towards the inanimate, while being aware that ‘inanimate’, too, is an anthropocentric (read: presumptuous) definition. In particular, the object I decide to resort to in order to put another obstacle between me and my surroundings, in other words to cushion the self, has a high-sounding name: magnifier. The magnifier that turns things upside down from afar and returns them in the direction they have up close.
Magnifier: from to magnify, to amplify, to exaggerate.
I ask myself (to return to the source of this argument and the reason why I am here, writing): isn’t this what literature is supposed to do?
But then why is it that so much literature almost always recoils into the limits of the everyday, within our narrow horizons? Why this hardening, this stubborn fixation on the self, as if its inner landscapes are the only ones worthy of being traversed, indeed, glorified?
And I allow myself the crossing of a bridge in this free (un)reasoning: why is the human being always at the centre of everything, time, space, dimension, necessity?
Why can Prince Llywelyn suddenly decide the fate of the excellent and faithful dog Gelert, who had saved his son's life by killing the wolf, in the name of the presumption that he is always right as a human? Why is he guided by a single reason, his own? Why does he remain untouched by doubt?
Doubt would have saved Gelert.
If I still wanted to lend myself to anthropology, it would be an anthropology beyond the human. In this, my old interest in objects proves to be, for the time being, pending greater insights, a valuable foothold.
And yet.
And yet objects are not just objects: the magnifier I slipped into my rucksack before leaving is the visible, tactile part of a crushed biography; it didn't belong to me until a few months ago, and it doesn't belong to me at all now; I feel I was presumptuous to take it, but it was equally inevitable. I wanted something of him, he who is no longer there, who always invited me to peer into it, to see through it to better grasp the details of the negatives and of the contact sheets on the light board, and every time I thought: isn’t the naked eye enough? But I still came closer and each time I proved him right: no, the naked eye alone was not enough. We human beings, in our knowledge, are not enough. And so the magnifier reminds me of the humility of knowledge that recognises its own limitations. The naked eye asking for help from the instrument, the object, the inanimate.
In this naked eye you remained imprinted,
bent over your light board,
in your ravine of metal, glass and papers,
now a dismantled Atlantis,
bent over your magnifier that I took with me
to this other island where you once imagined
seeking another life,
this country where you knew I would be,
is one of the last things we said to each other
over dinner.
The magnifier is broken, I guess you dropped it one day. I don't know when. The last time you invited me to look through it it was still in one piece.
You may have dropped it, but the lens is not broken; it is just, imperceptibly, chipped. The pieces, however, no longer fit together. You repaired it with red electrical tape. It was peeling off so I put another one over it, black, three layers of it, an impossible embrace, "and three from my hands flew, like a shadow or a dream." (1)
I can do better, magnify the incident, skip to another genre: you had left it alone for a moment, to go and make yourself a coffee, and it too, object that simulates the eye, wanted to become ‘I’, not just a mere instrument at the service of the human being; it wanted to see more, to try to go beyond the appearance of things, beyond the grain of the film, to discover the universe hidden in a silver crystal; perhaps it caught a glint, a flash, and sharpened its gaze. He squeezed his glassy eyelid tighter and tighter to get a better grasp of it, but the effort was too much and the glass cracked and you, who were not even there, heard that crack and rushed back into the darkroom, finding your object like that, where you had left it, motionless above the negatives, in the light, shattered by the desire to peer further.
And now the magnifier bears the wound of that very human desire to want to push yourself beyond their limits, like Dante’s Ulysses beyond the Pillars of Hercules: ‘Ma misi me per l'alto mare aperto’. (2)
Shipwrecking
Ulysses passed through the Pillars of Hercules, his ship unwrecked, and he has headed for the British Isles; he first stopped at the Isle of Anglesey where he collected three seashells and then went down south to Caernarfon, where he has decided to stay in his hut; his men have picked the flowers in the garden and have been turned into chickens, and they scratch around outside the gate, they fight over food with the seagulls. Ulysses no longer scans the horizon, no longer thinks of the sea, of the sea that has no smell, of the one that does. Instead, he scrutinises the objects he has around him, that he has collected, that he has brought with him, he dwells on the surface of things, which, as Palomar noted, is inexhaustible (3). The only Pillars of Hercules he wants to cross again, these days, are those that lead him to a stream.
‘The story of a stream, even one that rises and falls among the moss, is the story of infinity,’ wrote Elisée Reclus in 1869 (4).
Like Reclus, the only knowledge I need to have, for now, is that of this stream, of its gurgling, its every drop, of the water that sounds different when it meets a rock that emerges and breaks into a small waterfall, or when it creeps and swirls in a recess of grass and rocks; of the light that slips from the leaves of a willow tree and floats over the water, darkens, returns; of the soft, warm snowfall of the poplars, of the opposite current half a metre from the water of a myriad of tiny insects; of a duck with its five young, two that stay behind, and hurry to catch up with the others; of a spring that I can only see if I close my eyes, that I can only travel to, if I close my eyes.
Don’t tell me anything Tiresias, because everything has already been revealed, told, shown; and the resounding, often repetitive cacophony of stories we find on social media, the objectification of the self and every step it takes beyond the threshold of the house, or from room to room, has made travel impossible, or has trapped us in the idea that any movement not conceived as a repetition of the already-seen, or as a commerce of one's own experience, is something useless. It takes a great deal of inner strength to decide not to do something already suggested when travelling, in order not to “buy” someone else's journey.
I tried not to read what had been written by others about their residencies, and also carefully dodged: the ten things to see in Caernarfon; Caernarfon in a day, two, three; the best Welsh food restaurants; Manchester, what to see in a day. And so on.
The Odysseus-in-me (I always liked the name better than Ulysses) hums Wake up the dawn and ask her why/A dreamer dreams she never dies/Wipe that tear away now from your eye/ (5) comes to realise that not having an internet connection is not that bad, after all, and decides to stop; to stay and write, smudging watercolour sheets regretting to not have learnt how to use them, reading by the side of a stream; lazing on the soft, cool mattress of a hotel room ten minutes from the airport. And spending the next few nights dreaming of drifting through the terminals and missing the flight.
Hence I am not interested in taking note of a list of traditional stuff, or getting the real Wales on my taste buds. I am interested, however, that a group of friends, including the owners of the cottage I am staying in, devote their time, and thus give importance, to the preparation of a costume dance show to perform during the annual, and rather chaotic, Food Festival; or that Nici invites me and Kristina, my fellow resident, to her home for dinner, to be the one to cook Welsh dishes, and thus intentionally choose to be the material mediator of this knowledge that she has also written about in the past. Mind you, she did not write about traditional Welsh cooking, but about her own cooking. I think there is no such thing as typical, traditional, even national cuisine, and never has been. Every cuisine is imaginatively collective, but always individual. At most familiar, if we think of it as an (imprecise) ritual of re-enactment of past ties. And as I watch Nici cook, the hint of a memory worms its way into my mind:
The fake rabbit, the good Rarebit, which I thought contained meat, always makes me think of the horror I felt, before arriving in Malta for the first time, on discovering the existence of fenkata, the Maltese rabbit meal. At that time I shared my room with a beautiful white, blue-eyed rabbit.
And I can also feel free, despite my love of myths and legends, to leave out the books dedicated to Welsh legends winking from the shelves of the Palas Print bookshop.
But at the same time I listen spellbound to the fairy tales which Kristina narrates as we walk along the paths of Beddgelert. And I feel that flicker that these kinds of stories always arouse in me, for the way they colour places, make them shine.
But then, when the story ends, I wonder: are anthropologists, in essence, people moved by enchantment for the elsewhere, by the consciousness that there is no radical elsewhere (and certainly not as of now) individuals now incapable of enchantment?
But without enchantment, what is the point of looking?
And how does one find enchantment?
Should I fall asleep under an oak or elm tree, awaken in fairyland where time flows differently, and then return to a place that is now a temporal elsewhere, new and untouched by my own gaze?
‘It seems a beautiful thing, to end up in fairyland,' Kristina had concluded at that time, ’but it is not at all: when you wake up, you find yourself alone [because those you loved are no longer there].
Even in Caernarfon, time flows differently, and I forget which day of the week it is.
‘What I am is almost nothing dear. Almost mortal, almost a shadow like you. It is a long sleep that began who knows when, and you have come into this sleep like a dream. I fear the dawn, the awakening. If you go away, it is awakening.’ (6)
And like Calypso, I too fear awakening, unless it means waking up somewhere where the writer in me can put aside, for a while, the anthropologist-me, in order to be able to create a radical elsewhere that is able to bring about in me that astonishment, and then another, and yet another.
In other words, (as Alberto Sobrero, my Anthropology and Literature professor would have said when talking about anthropologists who eventually become writers and poets), shipwrecking.
And so, in order to disperse and de-centralise the self, for the strategy of the object, in order to magnify, to delay awakening, while I was still in Wales, I set out to shipwreck in all the places elsewhere which cannot be seen with the naked eye.
Note:
to find the smell of the sea again:
forget you can swim.
References
- Homer, The Odyssey, Book XI.
- Dante Alighieri, The Comedy, Hell, Canto XXVI.
- Italo Calvino, Palomar.
- Elisée Reclus, History of a stream.
- Oasis, Champagne Supernova.
- Cesare Pavese, Dialogues with Leucò, The island.